Testo
    Pubblicazione su AMAZON
     

    Saga storica e di racostume in 5 volumi

    -Il Rais dei Kinda

    -Fiamme sul deserto

    -Nella tana del Cobra

    - L'Avvoltoio lasciò il nido

    -Improvvisamente... a Dubai
    Che sapore hanno l'amore e la passione?... il sangue e l'odio? Nel posto più straordinario, affascinante e inospitale del nostro pianeta, i sentimenti non sono gli stessi che in altre latitudini... qui il sangue scorre nelle vene come liquido fuoco vivo.
    Amori e passioni, guerre tribali, razzie, intrighi e misteri, sanguinarie sette segrete, avventura e fantasia, qui, hanno spazi infiniti...
    Lo struggente sentimento che lega Rashid, il Rais più temuto d'Arabia, alla principessa Jasmine regalerà al lettore spasmi di vellutato piacere; la tenera e tormentata storia d'amore dello sceicco Harith per la bellissima Letizia gli rivelerà un mondo di magico splendore e l'amore proibito di sir Richard lord inglese, per l'indiana Zaira gli donerà brividi inquieti.

    Il forte interesse e la grande ammirazione verso tutto ciò che era Orientale, creò nel XIX° secolo uno dei capitoli più complessi della storia intellettuale europea. Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti.
    Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne solo alcuni.
    Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna (salvo poche eccezioni) ricopriva in quella società.
    Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…
    Nelle vicende narrate in questa che è una saga tribale, non si incontreranno solo figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia, perché il tema é:
    AMORE e PASSIONE - AVVENTURA e AZIONE - STORIA e MITO - FANTASIA e MISTERO

      Il Rais dei Kinda vol. I°

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      • miraggio

      JASMINE - brano tratto dal libro


                                        
      Alcanna. Con questo termine gli Arabi indicano sia il giardino che il Paradiso.
      Il Sultano del Qatar s’era fatto costruire sulla parte più alta della collina su cui si stendeva la città, una cittadella fortificata di mirabile struttura architettonica che aveva voluto chiamare Ambra, cioè, Palazzo-Rosso. Un vero Paradiso: padiglioni ombreggiati, pareti meravigliosamente intagliate, selve di colonne svettanti verso il cielo e sulla facciata centrale, un muro di cristallo  con tanti fori quante sono le ore in cui il sole, entrando, permetteva di leggere il tempo a grandi distanze.  Erano i giardini, però, la gloria di quel palazzo: fontane zampillanti e profumi di piante e fiori che facevano dimenticare il mondo arido fuori le mura.

      Nella parte più interna del palazzo, una ragazza sostava all’ombra di una colonna. Seduta sul bordo di una vasca che ospitava ninfee e loti, guardava oltre la siepe della balaustra rossa di bacche carnose e verde di foglie rigogliose; guardava i tetti delle case, i pinnacoli dei minareti, le strade. 
      Diciassette o diciotto anni, era snella ed armoniosa nei tratti del corpo che si indovinavano sotto la veste  di broccato che lei stessa aveva intessuto nelle lunghe ore della sua laboriosa giornata, perché la donna islamica non trascorreva mai in ozio il suo tempo…  a meno che non facesse parte di quella folta schiera che popolava un harem.
      Ogni tanto si girava a guardare verso l’interno, come in attesa di qualcuno, poi tornava a riassettarsi, con gesto grazioso, la candida camicia e i larghi calzoni di leggerissima seta, impreziositi da un corsetto ricamato ed annodato sul seno; una cintura dorata e morbide babbucce, anche queste dorate, completavano il suo abbigliamento.
      La figura era delicata come un fiore cresciuto in serra e gli straordinari occhi verdi erano pieni di splendore, nutriti di sogni e fantasie.  Dolci ed allungati verso le tempie, rivelavano innata curiosità e sensibilità; il candido jasmac di finissima mussola che le copriva il volto, li faceva risaltare come due puri smeraldi.
      Quella ragazza era Jasmine, pupilla del Sultano.
      Era da sola e reggeva un libro chiuso tra le mani. Voci e risate, però, le  sue ancelle che giocavano a palla, giungevano da vicino, oltre la grande siepe dietro cui s’era appartata per assaporare quell’attimo di solitudine.
      La principessa di Doha amava la solitudine e correva a rifugiarsi in quell’angolo luminoso per rifuggire dagli odori e dai profumi dell’harem e per sfuggire al buio dei corridoi.  Da quei giardini, in posizione elevata, poteva guardare la città di sotto: i tetti, le strade, i palazzi e quella nebbiolina  misteriosa e dorata che  saliva verso l’alto, simile al suo trasparentissimo velo, e rendeva morbidamente sfocati i colori dei boccioli ancora chiusi dei fiori  della grande siepe.
      Jasmine era una ragazza sensibile e romantica e come tutte le persone romantiche, anche amabile, introversa e con il bisogno quasi istintivo di crearsi un posto appartato e silenzioso dove rifugiarsi per consumare la solitudine come una preziosa leccornia  Solo così l’animo si apriva all’emozione, come le gemme alla rugiada, perché nulla come la solitudine suscitava nel più intimo riposto del suo animo, ansie e costrizioni nascoste. E poteva vedersi correre, attraverso gli spazi infiniti creati dalla fantasia, in sella al suo amato cavallo ed offrire il volto e i capelli al vento. Libera e non segregata. Perché lei non era quel fiore di serra fragile e delicato, ma un fiore  sbocciato in mezzo al deserto. Lei era come una di quelle meraviglie della natura, inimitabili, che si aprivano alla vita dopo una di quelle brevi e violente piogge del deserto e che non avevano uguali in bellezza e profumo.
      “Jasmine…”
      Una voce di donna la distolse dalle fantasticherie evocate dal richiamo irresistibile proveniente dal mondo oltre quella siepe; lo splendido piumaggio della ruota aperta a ventaglio di un vanitoso maschio di pavone, alle spalle, cercava di

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      IL BIVACCO - brano tratto dal libro

      TEMPESTA DI SABBIA - brano tratto dal libro

      Aggredito, vinto, asfissiato dall'aspro odore di zolfo, l'uomo si arrendeva.

      Piccola creatura impastata di terra e lacrime, nulla poteva contro quella forza terribile.

      Bocconi, schiacciato contro il suolo dalla sabbia torrefatta,  stretto nel mantello conteso dal vento in un vorticoso volteggiare di pieghe, consapevole della propria debolezza e fragilità, si nascondeva, preda del proprio terrore.
      Anche gli animali erano presi da uguale terrore; le froge spalancate, le teste sotto il ventre, si cercavano, si accostavano, si univano gli uni agli altri con le criniere al vento ritte e confuse.

      La Natura ardeva e tremava. Le dune si scioglievano come neve e le poche palme rinsecchite di quella che doveva essere stata un tempo un'oasi, gemevano inquiete; i rami ricurvi toccavano la sabbia e la spazzavano. Il sole, scomparso dietro la fitta coltre opaca ed a tratti sanguigna, aveva  richiamato indietro la notte. Senza quella visione contorta e gemente, ogni cosa sarebbe parsa morta.

      Il vento trasportava lontano ogni cosa: oggetti, sassi, arbusti e correndo via  lasciava dietro di sé la sua eco agghiacciante, assordante, forte, ma sempre più prolungata.
      Era il segnale atteso:  quel sibilo lacerante, ma sempre più sottile, indicava l'allontanarsi del sam.

      Lentissimamente, la coltre cominciò a perdere  il tetro, nefasto grigiore; timidi raggi di sole la squarciarono qua e là. Il vento divenne meno asfissiante, l'aria meno rovente ed appestata.
      Con difficoltà, ma si poteva alfine respirare e guardare il sinistro fantasma non ancora pago, né sazio, correre lontano verso altri luoghi da straziare e distruggere.

      Silenzio!  Un silenzio profondo dopo il fragore. Tutto taceva nella vallata morta. Il silenzio calato improvviso era ancora più sinistro del clamore.

      Ogni cosa era coperta da una sottile coltre calda, lucente, impalpabile.

      Un primo cenno di vita: una mano incerta, uno sguardo dilatato. Uomini ed animali si destavano come da un torpore di morte; si guardavano increduli.
      "Siamo ancora vivi?" sir Richard si scrollò di dosso la sabbia, ma era sforzo inutile,  questa era ovunque: sotto il burnus, sotto la keffiew, negli occhi, nelle orecchie, nella bocca.
      "Maledetta sabbia. - anche Akim stava destandosi - Si è  infilata ovunque." si lamentava.

      Vedendo le sue contorsioni Rashid, egli pure in piedi a scrollarsi di dosso la sabbia,  era scoppiato in una bella risata che aveva trascinato gli altri nella scia.
      "Tu ridi! - disse il ragazzo spazientito- Ma questa sabbia è più fastidiosa di un esercito di pulci."
      Anche Harith sorrideva; anche lui era sorto da sotto il suo mantello e tutti gli altri, uno dopo l'altro, parevano svegliarsi da lungo sonno.
      "Siamo vivi!" esclamò Rashid.
      "Sì! Ma non sappiamo in quanti." gli fece eco il suo sceicco, assumendo un'espressione preoccupata.
      Neppure Rashid, ora, sorrideva più; il volto era incupito e la fronte increspata da timori. Si staccò da Akim, che solo in quel momento parve accorgersi dell’assenza della figlia di Mayrama.
      “Dov’è Zaira?… Dove sono le ragazze? Erano qui con me… Perché non sono più qui? Che cosa  è successo loro? – proruppe – Devo cercare Zaira e anche le ragazze che erano con lei.” aggiunse e si allontanò di corsa.


      Anche Rashid e il suo sceicco, Harith, si allontanarono in fretta per passare in rassegna il campo. Per fortuna solo qualche lieve ferito e diverse casse andate distrutte. Con una sola grave eccezione: il cavallo di Gamal, uno dei più giovani cavalieri di Harith, che ne uscì con un garretto spezzato.
      Gamal fu costretto ad abbatterlo e lo fece tra i singhiozzi, non lasciando al altri il penoso compito.

      Sir Richard ne restò assai impressionato e Rashid gli parlò di quanto preziosa fosse la compagnia di un animale per gente come loro. Gli spiegò che era proprio al cavallo che Dio aveva legato il destino del Beduino: alla possanza del suo dorso ed alla forza del suo garretto ed all’allegria della sua criniera al vento.
      “Ama il tuo cavallo come una parte del tuo cuore, ci ha insegnato il Profeta.” concluse il rais.

      Il cavallo di Gamal fu seppellito sotto la sabbia: nessuno avrebbe mangiato mai la sua carne.
      I cammelli, intanto, acquattati per terra, docili e fermi, legati gli uni agli altri per non farli scappare, si lasciavano caricare del bottino; non senza brontolii: l’aria era satura dei loro versi gutturali e rochi.
       

      (continua)

       

       

      IL PICCOLO AMUD - brano tratto dal libro

      Un piccolo incidente, una manciata di minuti più tardi, movimentò l'atmosfera: qualcuno aveva rubato a Selima il suo medaglione e la ragazza era fuori di sé; prima pianse ed imprecò, poi, con la schiava Dacia mise a soqquadro la sua tenda, fino  quando non si convinse dell’estraneità della poveretta al furto. Mai la schiava fu più zelante e diligente come in quella occasione: non un solo  millimetro all’interno ed intorno alla tenda rimase inesplorato.  Cercò, infine, l'aiuto delle altre donne del campo.
      Una di loro disse di aver visto un ragazzo gironzolare attorno alla tenda, un ragazzo dai modi sospetti e malamente vestito, aggiunse.
      “E non lo hai riconosciuto?” domandò la Favorita.
      “Era un ragazzo. – la donna si strinse nelle spalle con gesto contrito – Mi pare che avesse un burnus color dattero. – spiegò - L'ho visto allontanarsi da quella parte." concluse, indicando l'uscita del campo.
      “Vieni! – ordinò Selima, con l’accento autoritario che le veniva dalla sua posizione di Favorita del grande capo – Fammi vedere chi ha osato mettere le mani su un gioiello di Se lima!”
      L’altra ubbidi.

      Al limitare del campo, seduto per terra, la schiena appoggiata contro un vecchio arbusto rinsecchito, sedeva un ragazzo; avvolto in un mantello di almeno due taglie più grandi, volgeva le spalle al campo.

      La donna lo indicò da lontano.
      "E' lui. Riconosco il suo mantello." disse.
      Era Amud, lo strano ragazzo al seguito del vecchio pastore Amin; la capretta che gli era stata donata non era più con lui, però aveva ancora la coperta che gli aveva dato Rashid.
      Selima lo sorprese di spalle, che stava gingillandosi col suo gioiello.
      "Brutto ladruncolo. - lo assalì; il ragazzo sussultò - Dove hai preso quel gioiello? Dammelo."
      Il ragazzo sollevò la fronte e piantò in faccia alla favorita due stupendi occhi azzurri.
      "E' mio!" rispose con voce soffocata, balzando in piedi e sottraendosi con uno scatto improvviso alle braccia tese di Selima.
      "Dammelo. Brutto ladro cencioso. Dammelo." gli urlò la donna.
      Ma Amud fece sparire il medaglione entro le pieghe del mantello poi si guardò intorno e si dette alla fuga.
      Pochi metri più a destra c'erano due uomini di guardia al recinto dei cavalli; Amud puntò verso quella direzione.
      I due gli vennero incontro, ma il ragazzo, agile come un cerbiatto, deviò la corsa e puntò verso il lato opposto.
      Un gruppo di donne, però, gli sbarrò la strada.
      Amud si fermò. Si guardò intorno, ma solo per un attimo, come fa l’animale braccato in cerca di una via di scampo. Vide  Selima, che gli veniva incontro con un frustino, le donne che gridavano, gli uomini che ghignavano; c'era perfino un gruppo di bambini che cercava di prenderlo, come in un gioco crudele di cui non conoscevano le conseguenze.
      Il ragazzo non si dette per vinto. Proprio all'altro capo del campo vide un varco fra due tende. Correndo a zig-zag verso quella direzione,  riuscì a scansare tutti: donne, bambini ed un gruppetto di uomini.
      "Piccolo demonio!" disse un degli uomini ,che si era guadagnato un calcio  negli stinchi.
      "Acchiappatelo. Prendetelo." gridavano da ogni parte.
      “Ha con sé il mio gioiello… non fatelo scappare.” gridava Se lima,  mettendosi anche lei dietro gli inseguitori.

      Il ragazzo sarebbe certamente riuscito ad uscire dal campo, le sue gambe erano leste e leggere come quelle di un'antilope, ma fu il caso a fermarlo: Akim gli comparve davanti all'improvviso e i due ragazzi non riuscirono ad evitare l'urto.
      Akim non si era accorto di quella piccola valanga umana e l'altro non era riuscito ad evitarlo. Caddero per terra sulla sabbia soffice che si sollevò schizzando come acqua.
      "Allah mi assista!" Amud cercò di rialzarsi.
      "Per la furia di Kalì! Chi è questa freccia?" esclamò il piccolo mago indiano.
      Troppo tardi per Amud: due, tre, quattro mani si tesero verso di lui; uomini e donne avevano circondato i due ragazzi, semiaccecati dalla sabbia.
      “E’ un ladro. – spiegò qualcuno, afferrando il ladruncolo per un braccio – Ha rubato il dono che Rashid ha fatto a Se lima.”
      Trascinato di peso, Amud si ritrovò al centro del campo, ma le sue risorse parevano inesauribili: il capo curvo, il respiro affannoso, il ragazzo finse di essere domato, ma di colpo si chinò a raccogliere una manciata di sabbia e la gettò negli occhi del malcapitato che lo aveva preso in consegna. Il residuo di sabbia rimasto nel piccolo pugno, lo fece volare tutt'intorno.
      L'uomo cacciò un urlo e lasciò andare la presa; con le mani si teneva gli occhi ed insieme a tutti quelli che avevano avuto uguale sorte, si mise a gareggiare nel più fiorito linguaggio di imprecazioni che l'Islam fosse in grado di offrire.
      Amud si ritrovò nuovamente libero e nuovamente ritentò la fuga, ma il cerchio intorno a lui si era fatto inesorabile.

      Fiamme sul deserto - vol II°

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      BRANI TRATTI DAL LIBRO

      più lo stesso!" - proverbio beduino

      L’oasi di Sahab!
      Quando i poeti arabi cantarono la bellezza del Paradiso Terrestre, certo dovevano riferirsi a qualche oasi verdeggiante. Forse un’oasi come Sahab, tanto più bella, in quanto sorta nel cuore di un mondo millenariamente immoto e desolato come può esserlo soltanto il deserto di Ar-Rimal.
      Depresso e ancora semi inesplorato, era l’espressione più calzante della desolazione eppure erano in pochi a conoscenza della esistenza di quel magnifico gioiello  con cui  la Natura lo  aveva voluto compensare  di tanta avarizia.
      In nessun luogo al mondo, come in un’oasi del deserto, l’ombra di un palmeto o l’umidità della rugiada possono dare uguale refrigerio. Nulla, quanto un palmeto che prende vita dall’acqua di un pozzo miracolosamente vivo in mezzo all’aridità, nulla quanto l’atmosfera di un posto come Ar-Rimal esiste in nessun’altra parte della Terra.
      Sahab sorgeva intorno ad una mezza dozzina di pozzi, il più grande dei quali era di proporzioni davvero notevoli.
      Arcaico nella forma,  monumentale e rettangolare, era protetto da un muro alto quasi un metro.

      All’estremità orientale dell’oasi sorgeva un’altra costruzione imponente: uno di quei tipici castelli disseminati nei deserti e fatti costruire da emiri e sultani per le soste nelle interminabili traversate nel deserto.
      Quadrato e con tre cupole ad ellissi, il castello emergeva dal muro di cinta che lo circondava assieme ad un enorme cortile. Al centro del cortile si ergeva una quarta cupola cui si accedeva attraverso un grande portone. La parte orientale del muro di cinta era quasi in rovina, segno di secolare abbandono, ma il resto era in ottimo stato di conservazione.

      Gli abitanti dell’oasi e il loro rais, presero tutti quella direzione.
      Era stato proprio Rashid, alcuni anni addietro, a scegliere quell’oasi come posto sedentario per la potente tribù dei Kinda che per secoli aveva conosciuto solo l’interminabile peregrinare tra le sabbie.
      Quell’oasi era diventata il covo dello sceicco Harith e di Rashid, il suo formidabile rais e la vecchia costruzione serviva per le adunanze dei capi e degli anziani: il beduino non avrebbe rinunciato mai alla sua tenda.

      In quel cortile, però, ci si riuniva anche per festeggiamenti e ricorrenze e il ritorno del capo e della sua donna, era un evento da festeggiare.
      Entrarono tutti nel cortile, le donne trillando con la lingua, secondo l’uso arabo e gli uomini continuando a far roteare sopra la testa pugnali e fucili; alcuni bambini stavano giocando con ciotole e bricchi lasciati incustoditi, ma lasciarono i giochi per correre festanti incontro ai nuovi arrivati.
      “Si danzerà e canterà, questa sera, a Sahab! – Ibrahim, il vice di Rashid, si avvicinò al suo capo con il fucile levato sul capo e da cui fece partire un colpo - Si ballerà e danzerà!”
      “Si ballerà e canterà!” altre voci si alzarono, subito seguite dal rombo di fucili e carabine e immediatamente dopo, l’oasi non fu che un unico grido ed un unico rombo, fragoroso come quello di cento cannoni.

      Assopita nella calura del primo pomeriggio, Sahab sonnecchiava ancora, ma il primo pensiero dello sceicco Harith era stato per Letizia, la figlia del mercante greco.
      Gli dissero che si trovava sotto la grande tenda di Alina, madre di Ibrahim,  braccio destro di Rashid.

      Alina era anche la donna più influente della tribù per la parentela con lo sceicco, ma soprattutto per la numerosa figliolanza che le aveva dato potere e prestigio.

      Riunite nel centro del maq'ad , la zona riservata agli ospiti, allegre e cicalanti, le ragazze erano occupate negli ultimi preparativi per festeggiare l'arrivo della principessa Jasmine e consumavano l'attesa sgranocchiando uva passa e tracannando bicchieri di acqua, the e carkadè.
      C'era Zaira,  la figlia di Mayrana, l'asceta indiano e c'erano Agar e Amina, le figlie minori della padrona di casa; c'era Letizia, la figlia minore del mercante greco e seduta al suo fianco c'era Fatima, figlia dello sceicco della tribù degli Aws e promessa sposa dello sceicco  Harith, dal volto velato come voleva la consuetudine.
      Fianco a fianco, le due ragazze lasciavano scivolare di tanto in tanto le gambe sull'immenso tappeto senza abbandonare le tazze non più fumanti che reggevano in mano: Fatima, che pareva guardarsi intorno con profondo distacco e  Letizia che, al contrario, sembrava voler cogliere ogni sfumatura di quanto la circondava, come in attesa di qualcosa. Continuava  a girare il capo in direzione dell'entrata come se qualcuno dovesse fare da un momento all'altro la sua comparsa.
      Qualcuno, infatti, scostò il lembo della tenda che fungeva da entrata e stagliò nel vano la possente figura, gettando l'ombra alle proprie spalle: lo sceicco Harith che in quel posto unico al mondo,  dall'asprezza e  selvaggia bellezza, sembrava esservi stato messo come parte integrante, tale era la perfetta sintonia con esso.
      Il beduino avanzò di qualche passo, nobile e fiero, l'esclusivo atteggiamento da  animale selvaggio, che tanto timore  incuteva in avversari e nemici e tanta ammirazione negli altri.
      Era senza dubbio l'uomo più attraente della tribù, ma schivo e scontroso; un misto di dolcezza e violenza, vendetta e perdono, comprensione ed implacabilità. Tenacia e pazienza erano commiste in lui insieme a spregiudicatezza e buonsenso, astuzia diplomatica e capacità d'azione, qualità che  aveva l'abilità di utilizzare sempre al momento giusto. Un uomo ambizioso, dunque, intelligente e scaltro, gran combattente ed ottimo diplomatico:  il capo giusto per un popolo inquieto ed irrequieto come i Kinda.
      Da ragazzo suo padre, lo sceicco Amud Alì, della tribù dei Kinda, lo aveva spedito in Inghilterra in un collegio militare da dove era tornato pronto a guidare la sua gente.
      Alto, atletico, la possente figura avvolta nell'ampio Ksa, il mantello bianco marocchino senza maniche ed ornato di passamanerie, ancora impolverato di sabbia:
      "Inshallah!" salutò, facendo convergere  su di sé gli sguardi di tutte le ragazze.

      Fatima e Letizia scattarono in piedi entrambe per andargli incontro e sul bel volto abbronzato del giovane comparve un'espressione indecifrabile; le  sopracciglie, congiunte sul naso adunco,  parvero fremere e stormire come piccoli cespugli.  Contrasse la mascella
      mentre un lampo di titubanza gli attraversava lo sguardo.
      Si fermò quasi al centro della grande stanza; le due ragazze, invece, avanzarono con passo sempre più veloce. Soprattutto Letizia, il cui sguardo sfavillava come un cielo irrorato  dalla luce dell'Aurora: brillante e quasi acccecante.
      Scuro e di una dolcezza schiva, quasi color caffé, quello della figlia dello sceicco degli Aws, che il nero  jasmac, trasparente appena da lasciar intravvedere i contorni del volto, rendeva un pò misterioso; sotto il velo si  intravvedeva una folta capigliatura nera e sapientemente acconciata.

      Provocatorio e tentatore, come soleva ripetere sir Richard, l'amico inglese dello sceicco, quando si esprimeva a proposito del volto velato della donna islamica. In realtà, a Sahab quasi nessuna aveva il volto velato. Quella del velo era una delle innumerevoli regole cui la donna doveva sottostare per essere rispettata e per sentirsi al sicuro, ma  le donne di Sahab conoscevano una libertà sconosciuta alle donne della costa e delle città.
      La vecchia Alina ed altre poche donne della sua generazione, però, difendevano ancora   con accanimento quell'imposizione.
      "Gli uomini - diceva - non desiderano mancare di rispetto ad una donna, ma se ne incontrano una a viso scoperto, possono cadere in tentazione."
      "E' un problema degli uomini! - replicava Letizia che, da ribelle occidentale non intendeva sottomettersi a quei dettami -  Se un uomo non sa controllare i propri istinti e le proprie debolezze, non è colpa della donna che gli sta di fronte!"
      Naturalmente Alina rispndeva sempre scuotendo la testa: le sue figlie, infatti, non portavano veli, se non qualche volta,  per pura civetteria.

      Le due ragazze continuarono ad avanzare; Harith era sempre fermo.
      Piuttosto graziosa, le forme un po' abbondanti, Fatima esibiva una veste della più pura tradizione islamica. Doveva prediligere il colore verde, poiché sopra la veste di prezioso damasco giallo indossava una sopraveste  senza maniche, verde e riccamente ricamata con fili d'oro  e sotto la veste, aperta sul davanti, ampi pantaloni di leggerissima seta. Anche questi di colore verde. Collo, caviglie, polsi e mani erano letteralmente coperti da vistosi gioielli.
      Priva di qualunque gioiello, invece, la figura di Letizia. Nemmeno un esile cerchietto intorno alle affusolate dita da artista: nel suo Paese, in Italia, Letizia aveva studiato pianoforte nel collegio militare presso cui aveva vissuto parte della adolescenza. E neppure gioielli di altra sorta, benché l'uomo che l'aveva adottata, il mercante Aristeo Callas, fosse stato un gioielliere. Né fasce ai polsi, né filigrane intorno alle caviglie. Solamente un medaglione legato al collo con le immagini dei cari perduti.
      Ma come sempre, la sua bellezza rifulgeva su chiunque come un cigno in uno stagno in mezzo alle anatre.

      Harith spostò più volte lo sguardo da lei all'altra ragazza, dallo sguardo di Fatima, scuro e tranquillo, a quello di Letizia, azzurro e pieno di magia e di splendore.
      Anche Letizia aveva un velo;  il suo, però, era azzurro cielo e ugualmente trasparente e lei   ne reggeva i lembi  tra le mani trastullandosene, mentre con delizioso rossore fissava il volto del giovane, al contrario di Fatima che aveva abbassato gli occhi.
      Il suo abbigliamento era un felice abbinamento dello stile islamico a quello occidentale.
      Su un corpetto di tessuto damascato, che metteva in risalto il seno rigoglioso e l'armoniosa figura avvolta in una gonna a vita alta, di un incantevole colore blu-cobalto, aveva appoggiato una sopraveste di squisita fattura islamica, ampia e senza maniche, leggerissima e fluida   e sul capo aveva posato una leggerissima ghirlanda di foglie di palma intrecciate. Avanzò, nel balenio degli occhi azzurri, brillanti come preziosi e sfolgoranti di gioia.  Il sorriso smagliante,  la pelle luccicava di riflessi ambrati.
      Bellissima, di una bellezza ineguagliabile sotto lo splendore dei capelli biondi, tese le braccia.

      Anche le braccia di Fatima si tesero in avanti; le dita delle mani tintinnarono dei  numerosi  gioielli che le coprivano e fu con quelle  che andarono ad intrecciarsi le dita delle mani, grandi e forti, di Harith che aveva fatto un passo in avanti.

      Letizia si fermò di colpo, poi indietreggiò di un passo, di un altro e di un altro ancora,    senza voltarsi. Il  sorriso le si spense sul bel volto e lo  sguardo, smarrito e assente,  catturò  quello di colui che considerava il suo uomo e ve lo trattenne in maniera così intensa da costringerlo a spostare altrove  il  proprio ed a stringere le dita di Fatima così forte da strapparle un gemito.
      "Letizia..." chiamò, tornando a convergere lo sguardo su di lei e affondandolo nei due  pezzi di cielo,  velati e puri, che lei si era messo negli occhi...  erano lacrime?
      Quel bisogno, però, antico e irrinunciabile di piangere, abbandonò presto la figlia del mercante greco. Le sue difese erano pronte a  sorreggerla:  il silenzio e lo sguardo,  nudo e vulnerabile come quello di un bambino.
      "Letizia..." chiamò per la seconda volta Harith.
      Letizia però s'era calata il velo sul capo, sottraendo ai suoi sguardi la cascata d'oro dei capelli e lo splendore del volto; lo fissò con negli occhi, l'unica parte di sé che gli aveva concesso ancora di  guardare, quella luce che una volta sola sfavilla negli occhi di una ragazza  quando, cioè,  crede che il sole irradi soltanto per lei, ma che si smorza appena la luce si spegne.
      "Letizia..." la chiamò per la terza volta, ma Letizia s'era già allontanata.

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      Nella tana del cobra vol. III°

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      Brani tratti dal libro

       

      CAPITOLO II - IL MEDAGLIONE


      Più che un villaggio, Malis era una borgata, un suburbio di Al Mughara, un agglomerato di poche casupole sparse intorno alla strada maestra che conduceva al porto.
      Erano piccolissime, uguali e tutte rivolte verso il mare. Benché non possedessero nulla che potesse attirare la cupidigia dei pirati che infestavano quei mari e fossero abitatate solo da pescatori uniti da vincoli di sangue ed amicizia, qualcosa attirava laggiù avventurieri e predoni del mare: perle e coralli che i pescatori portavano su dalle profondità del mare.
      Bianche, ad un sol piano e con un cortile entro cui posavano attrezzi da lavoro, sfidavano i monsoni con la stessa audacia con cui gli abitanti affrontavano le insidie del mare e di   insidie,  in quei mari, ve n'erano tante.
      La casa di Yizad non si scostava dalle altre né per fattura né per colore: un blocco di pietra bianca con fessure ed aperture.
      Così apparve al lord inglese e nell'ombra di una di quelle fessure, gli parve anche di vedere fluttuanti figure velate.
      "Altri ospiti ci attendono." un largo sorriso distese la faccia del pescatore mentre tendeva un braccio in quella direzione.
      "E' vero! - gli occhi del fratello si illuminarono - Asada non è sola. Amina è venuta a farle visita."
      "Amina - spiegò Yizad, cui gli affanni della vita dovevano aver caricato di fatalismo e reso apparentemente diverso dall'irrequieto fratello - è la promessa di Ashraf e Asada è la mia donna."
      "Amina sarà la mia prima moglie. - continuò il ragazzo con irrequieta vivacità -  Quando avrò terminato di costruire la mia casa e con il ricavato di questa perla avrò comprato una barca tutta mia, pescherò il miglior corallo della costa e potrò comprarmi un'altra moglie."
      "E tu, Yizad, hai solo Asada per moglie?" domandò con lieve ironia il lord.
      "Avrei potuto comprarne un'altra - rispose con disarmante semplicità il pescatore di perle - Per Asada ho dato a suo padre la mia prima barca, che era il più veloce e resistente dei parei di questa costa... ma Asada valeva ancora di più!" aggiunse con accento d'orgoglio.
      "Ah.ah.ah... - rise compiaciuto sir Richard - Le tue parole mi fanno piacere."
      "Asada è insostituibile." recitò con enfasi l'uomo.
      "Mio  fratello ha ragione! - interloquì con voce convinta il giovane Ashraf -Asada è una donna virtuosa e molto bella che né il tempo, né le fatiche riescono a segnare. Oh.oh... - sorrise - Sapete, stranieri, sapete... Sembra che il tempo si sia innamorato di lei... L'accarezza senza sfiorire la sua bellezza. Per questo ho voluto che fosse lei stessa a cercarmi una moglie  bella e premurosa come lei."
      "Saggia decisione!" disse distrattamente l'inglese, al che, Rashid:
      "Le nostre donne sono insostituibili!"  esclamò.
      "Asada non è solo bella e virtuosa... La mia donna è anche coraggiosa come un uomo." punttualizzò il pescatore di perle.
      "Ne sono convinto". disse il lord con lo stesso tono di prima e il pescatore, che aveva colto quella distrazione:
      "Non ti sorprenderà, Sahib, - replicò - sapere che Asada si cala nelle profondità assieme a noi per pescare ostriche e cogliere corallo?"
      "Mi sorprende molto, invece. - s'affrettò a chiarire sir Richard - Ho sentito parlare di donne coraggiose e senza paura che praticano la pesca del corallo nei Mari del Sud, ma non sapevo che pescatrici di corallo ci fossero anche qui."
      "Senza paura? - sorrise Yizad - Perdonami se ti contraddico, sahib, ma solo un pazzo non ha paura. La paura ci accompagna sempre, quando ci tuffiamo."
      "Chiedo perdono. -conciliò l'inglese - Il vero coraggio è proprio la capacità di vincere la paura. -  una lieve pausa, in contemplazione di quanto lo circondava, poi riprese - Chi si proclama senza paura non è un coraggioso, ma uno sciocco."
      "Esatto! - assentì il pescatore - La paura va misurata e non disprezzata... anche con un avversario dev'essere così  o si sarà in due ad aver paura."
      Faceva impressione sentir parlare in tali termini un uomo che sfidava la morte ogni giorno, ma  erano ormai arrivati e il lord fermò il cavallo

       


      Sull'uscio di casa due donne erano in attesa e quando si accorsero della presenza di estranei si ritirarono immediatamente; ricomparvero subito dopo, richiamate da Ashraf, con i volti coperti da finissimi jasmac di lino.
      "Asada." chiamò il pescatore.
      "Che cosa è successo?" chiese la donna avvicinandosi premurosa al marito.
      "Hanno tentato di rubarmi la perla di Ashraf. - spiegò l'uomo  Ma questi amici l'hanno recuperata ed hanno salvato la mia vita. Il pirata Yazid mi avrebbe lasciato morire dissanguato." aggiunse mostrando la mano ferita.
      "Quel pirata è di nuovo qui?" esclamò la donna con accento preoccupato.
      Entrarono tutti nella casa.
      Amina si dette subito da fare per preparare the aromatizzato ed accatastare cuscini su cui invitò gli ospiti a prender posto. Solo aRshid e Harith sedettero; Ashraf si stava prendendo cura dei cavalli e il lord chiedeva ad Asada bende e acqua.
      Asada era davvero molto bella; anche attravero il velo era facile capirlo.
      Era tenera e premurosa con il suo uomo ed un po' intimida dal tono imperioso dell'inglese.
      Con in mano bende e acqua fresca guardava il lord che si prodigava con un unguento estratto dal'interno della casacca: un po' dell'unguento che Zaira gli aveva dato prima della partenza.
      "Ha perso molto sangue. - spiegò sir Richard alzando il capo dalla mano ferita - Per questo è così debole. - proseguì, poi ebbe un rassicurante sorriso - Con questo unguento, però, si ristabilirà presto."
      Evitando di chiamarla per nome, nel rispetto delle usanze arabe che vietavano ogni confidenza con le donne,  il lord continuava a fare cenni col capo.
      "Se Allah ha voluto sottoporci a questa prova, noi dobbiamo accettare la sua volontà... la sentì dire  -  I suoi disegni sono imprescrutabili e non sono un capriccio, ma nascondono sempre un beneficio."
      Il lord girò nuovamente il capo verso di lei e per un istante gli parve di avere di fronte sua madre: la disarmante semplicità di quella donna lo commuoveva.
      Anche Yizad sollevò il capo e  guardò la sua donna.
      "Le tue parole, mio bene, vogliono dire qualcosa che da tanto attendiamo?" disse.
      "Sì!"
      Un monosillabo. Ma vi era racchiuso il mondo intero e anche sir Richard capì.
      "Avremo un figlio, sahib. - proruppe con voce raggiante il pescatore - Lo abbiamo atteso da quando il nostro villaggio si riunì per festeggiare le nostre nozze e sono passati otto anni."
      Pallido e lo sguardo febbricitante, l'uomo tentò di sollevarsi dalla stuoia su cui la moglie lo aveva fatto stendere; voleva  abbracciarla, ma non ci riuscì e ricadde all'indietro, senza però abbandonare il sorriso e al fratello che stava entrando in quel momento disse:
      "In questa casa ci sarà presto un bambino, fratello mio."
      Ashraf si precipitò verso la cognata, le prese la mano e la coprì di baci.
      "Allah è grande, sorella mia!  -  disse, con lo stesso tono del fratello, poi a questi - La tua gioia deve esssere grande. fratello!"
      "Non permetteremo ad Asada di tornare ad immergersi. Vero, Ashraf?" disse il pescatore.
      "Non lo faremo. Allah ci aiuterà!" assentì con convinzione il fratello.
      Rashid, che aveva ascoltato in silenzio, prese da una delle bisacce un sacchetto e lo porse a Yizad.
      "Allah ti sta già aiutando, amico mio. -  disse semplicemente, poi, al cenno di diniego dell'uomo - Sono per il bimbo che nascerà e per sua madre."
      Mentre l'unguento agiva sul ferito facendolo scivolare in un sonno ristoratore, Asada si accostò al grande predone: nella piccola mano bruna spiccava la perla di Ashraf.
      "Se sarà un bimbo gli daremo il tuo nome, sahib e se sarà una femmina avrà il nome di colei che è favorita nel tuo cuore ed io sarò debitrice di questa perla con Ashraf fino a quando non ne avrò pescata un'altra. - Asada si interruppe: aveva scorto sul bel volto del rais una espressione di profonda tristezza, tuttavia riprese - Questa perla insanguinata con il sangue del mio uomo è un segno della benevolenza di Allah, che ha condotto amici generosi nella sua casa modesta."
      "Stai parlando con Rashid, il rais di Ar-Rimal, sorella mia." interloquì con sussiego il giovane Ashraf.
      "Sono soltanto un uomo infelice. - gli occhi di Rashid bruciavano come carbone ardenti - La mia donna è stata rapita e noi stiamo inseguendo i rapitori.  - spiegò, girandosi a guardare la donna  - E vi siamo grati di questa ospitalità."
      "Prendi la perla, allora. - lo sorprese Asada - Forse sanguinerà ancora, ma sono certa che ti porterà fortumna come ha fatto con noi e donala alla tua donna... - un attimo di esitazione -... quando l'avrai ritrovata... insieme a questo gioiello. -  maggiunse con un  sorriso quasi  di scusa -  Volevo farne un dono alla sposa di Asfraf per le sue nozze, ma il mare è uno scrigno tanto grande e ricco di cose preziose... Troverò qualcosa d'altro  per lei."
      Rashid tese la mano verso il medaglione, ignorando completamente la perla: era improvvisametne impallidito.
      "Dove lo hai trovato?" domandò, visibilmente sconvolto.
      "Tra i rami di un corallo." spiegò la donna.
      "Quando?" incalzò il rais.
      "Solo qualche ora prima del vostro arrivo.- spiegò lei - Ma... tu mi sembri turbato, sahib..."
      Rashid non la lasciò finire.
      "Questo medaglione appartiene alla mia donna. Io stesso gliel'ho donato. C'é il suo ritratto custodito all'interno ed io solo ho la chiave per aprirlo."
      Harith e sir Richard, nel frattempo, si erano avvicinati e così Amina ed Asraf, poi Rashid impugnò la minuscola chiave che portava legata al collo e l'aprì.
      Il medaglione passò di mano in mano prima di tornare in quelle di Rashid.
      "La principessa Jasmine! - esclamò Ashraf - E' la principessa Jasmine, vero, sahib? ... Guarda... guarda anche tu, Amina."
      "E'... è bellissima!" esclamarono insieme i due giovani.
      Amina passò il ritratto ad Asada, che lo rese al grande predone di Ar-Rimal.
      "Sapresti tornare nel luogo dove l'hai trovato?" domandò sir Richard.
      "Certo! - rispose Asada - Sono pronta ad accompagnarvi anche subito."
      "Scenderò io sott'acqua. -  si offrì il giovane Ashraf  -  Tu ci   indicherai il posto... se loro - indicò gli ospiti - sono in grado di stare in acqua come in terra."
      "Sappiamo nuotare. -  lo rassicurò il rais ed allo sguardo di stupore comparso sul volto del ragazzo - Lui è inglese. - spiegò, mentre continuava a contemplare con animo tormentato lo stupendo volto che gli sorrideva dal medaglione e fu  proprio  nell'atto di portarselo alle labbra a fare la sconvolgente scoperta - Per Allah!... Questo non è il volto della mia Jasmine...   -  proruppe  - Jasmine ha gli occhi azzurri e la sua fronte è pura e senza nei..."
      Sir Richard gli strappò quasi di mano il gioiello e lo fissò con estrema attenzione:  il colore degli occhi della ragazza che sorrideva dal ritratto erano neri come l'ebano  d'ebano ramati era il colore capelli e non castano dorato come quelli della principessa Jasmine. E quel grande neo sulla fronte, che rendeva così misterioso lo sguardo della ragazza che sorrideva  dal medaglione, Jasmine non lo aveva.   Jasmine, invece, era sull'angolo destro del mento che esibiva un segno di disinzione: una minuscola voglia dalla vaga forma di stella.
      "Questa ragazza non  è la principessa Jasmine!"  confermò  il lord inglese.
      "E' vero!" convenne lo sceicco Harith quando anch'egli ebbe il medaglione fra le mani.
      "Per tutte le balene dell'Oceano! -  proruppe l'inglese, accantonando la proverbiale flemma - Tutto questo ci pone davanti ad un enigma da risolvere...Se la tua  chiave ha aperto questo medaglione, Rashid, amico mio... questo che abbiamo davanti deve essere proprio il medaglione della principessa Jasmine..."
      "Ma il ritratto non è della mia Jasmne!"  insistette cupo il rais.
      "Abbiamo un mistero da scoprire e prima lo risolveremo, meglio sarà!"
      "Una cosa è certa. -   continuò sempre più  cupo  Rashid - Hakam si nasconde da queste parti e Jasmine si trova con lui!"

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      DUNE ROSSE - L' Avvoltoio lasciò il nido

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      Il forte interesse e la grande ammirazione verso tutto ciò che era Orientale, creò nel XIX° secolo uno dei capitoli più complessi della storia intellettuale europea.

      Si trattò di un fenomeno assai diffuso a causa dello spiccato interesse per tutto quanto fosse orientale e per alcune caratteristiche in particolare: l’arte, la falconeria, i divertimenti (soprattutto danza del ventre).  Si giunse perfino a deporre l’abito europeo per preferire quello orientale. Molte personalità lo fecero: il pittore David, l’archeologo Belzoni, l’avventuriero Laurence d’Arabia, per citarne alcuni.

      Si trascurarono, però, alcuni degli aspetti fondamentali di quella cultura; a volte si finì anche per ironizzarne. Mancò spesso il rispetto per una cultura considerata piuttosto folkloristica e quel che è peggio, si trascurò la condizione assai precaria che la donna ricopriva in quella società. Ossessione per una terra ed una cultura che, in fondo, non si conosceva affatto, ma che spinse tanti europei a travestirsi da arabi…

      Nelle vicende narrate in questa che è una saga tribale, non si incontreranno solo figure storiche realmente esistite, ma anche personaggi partoriti dalla fantasia, perché il tema é: Amore, Passione, Amicizia, Storia, Consuetudini, Azione, Avventura, Mistero…

      Brani tratto dal libro

      Testo

       

       Nel silenzio ovattato di suoni e voci trattenute che avvolgevano il palazzo del sultano, spenta ogni luce, un’ombra sgusciò nel buio.  Procedeva guardinga e spedita lungo il cortile e si fermò davanti ad una delle colonne cui fino a poco prima c’era stato il leopardo incatenato. Con gesti sicuri toccò il trosso anello di metallo infisso nel muro cui era attaccata  la catena. Badando a non far rumore, la tirò, prima a destra e poi a sinistra. Rispose un cigolio, come di pietra che striscia per terra. e subito la panca di pietra, ad un metro più avanti, tra la seconda e la terza colonna, si spostò mostrando una botola..

      Per un attimo rimase immobile a guardasi intorno e quando fu certo di essere veramente solo, si staccò dal buio e si fece avanti, sotto il chiarore lunare che illuminava quella parte della botola non protetta dall’ombra della seconda colonna, proiettata a terra.

      Era una figura  agile e atletica. Portava ampi pantaloni scuri e una casacca , scura pure questa, dal cui fianco sinistro pendeva un pugnale. In testa aveva un mindil, nero  e il  volto era nascosto, ma gli occhi, di un nero profondo, non  lasciavano dubbi:  quelli erano gli occhi di Ahassan.

      Il ragazzo si calò nella botola. Vi trovò una scala di  una dozzina o poco più di gradini, che fece quasi di corsa, dopo essersi richiuso la botola sulla testa e  prima di trovarsi in un ambiente immerso nella penombra appena rischiarata dalla fioca luce proveniente dall’alto del soffitto. Qui,  alcuni lastroni di vetro lasciavano entrare il chiarore lunare e permettevano una discreta  visibilità che gli mostrò,  in fondo, sulla destra, una porta. Ahssan l’aprì  senza esitazione, quasi conoscesse bene quel posto e si trovò in un lunghissimo corridoio che  percorse a passo lesto. Quando fu in fondo al corridoio, tornò indietro  contando i passi.

      “Uno, due, tre, quattro, cinque – contò sottovoce mentre il cuore gli batteva forte nel petto - Dovrebbe essere qui… se ricordo bene!  -  Si fermò e mentre picchiettava lieve sulla parete tendeva l’orecchio guardingo – Il passaggio dovrebbe essere qui… Vediamo… Prudenza, altrimenti, addio smeraldo.!”

      Continuò a picchiettare, a brevi intervalli e sempre con l’orecchio teso e il cuore in gola, fino a sentire un suono  diverso. Era quello che aspettava.

      “Adesso calma, Ahssan… o finirai per penzolare assieme al professore.”

      Con le dita studiò attentamente la parete, centimetro per centimetro. Cercava qualcosa, un dislivello o una rientranza ed infine trovò una fessura lunga e stretta tra due file di pietre. Vi infilò l’indice e la percorse tutta,  lentamente, fino a quando incontrò una leva che cigolò sotto la pressione del dito. Subito dopo, come per incanto la parete si spostò,  mostrando l’esistenza di un passaggio.  Lo attraversò, senza richiuderlo  e si trovò alle  spalle  del grande seggio, nel salone privato del sultano.

      Con circospezione si guardò intorno, pur sapendo di essere solo in quella stanza guardata a vista dall’esterno, poi, per un lungo attimo rimase a fissare il prezioso scanno, imponente e dorato, su cui, come un vero sovrano, Sayed Alì riceveva sudditi e amici. Dietro la porta si udivano le voci delle sentinelle.

      Il ragazzo si accostò allo scanno, seminascosto da cuscini di seta e tese la mano verso la spalliera scolpita ed ornata di pietre preziose; al centro campeggiava un enorme smeraldo.

      “Lo smeraldo di Luna!” esclamò, restando per un attimo in estatica contemplazione, poi impugnò il pugnale e con un colpo deciso staccò la gemma. Trattenne il respiro, come in attesa di qualcosa, ma non accadde nulla e quando tornò a respirare,  si voltò e, così come era arrivato, rifece il percorso al  contrario.

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      Due cavalieri chiudevano la carovana.

      In verità, si trattava di un ragazzo e di una donna e il ragazzo stava indicando un gruppo di persone sdraiate per terra ai piedi di un muricciolo in parte consumato da tempo, intemperie e incuria umana.

      Avvolti in stracci, che portavano tracce di in passato più dignitoso. 

      “Una miseria intollerabile! Come faranno a sopravvivere.” scandì il ragazzo.

      “Non si sa come, dice tuo padre, -  rispose la donna - E non si sa nemmeno perché…” proseguì  e  uno scarto del cavallo rivelò il volto bellissimo della principessa Jasmine, che il tempo aveva reso ancora più bello e consapevole.

      Fedele alla sua fama di capace ed esperta amazzone, Jasmine ricusava sempre la comodità di un baldacchino per preferire la sella di un cavallo. Al suo fianco cavalcava Ben Ahssan, di quasi tredici anni, primogenito suo e di Rashid.

      Ben era davvero un ragazzo di straordinaria avvenenza;  gli occhi, verdi, penetranti e limpidi  erano come quelli della madre, ma, l’espressione, ardente ed ostinata, un po’ selvaggia, e il mento volitivo, quelli erano del padre.

       

      L’altro figlio, Husseyn, di dieci anni, cavalcava alla testa del corteo al fianco di Rashid. Era la copia esatta del padre. Stessi occhi, stessa bocca, stessa mascella quadrata, gli mancava, però, quel fascino particolare, quel “qualcosa” di innato ed istintivo, di inafferrabile che veniva da dentro, indiscutibilmente capace di influenzare gli altri, che invece Ben Ahassan aveva ereditato.

      I due ragazzi fisicamente si assomigliavano parecchio, quanto al carattere, però, erano fondamentalmente diversi. Quanto il secondogenito era impulsivo, tanto il primogenito era razionale, quanto l’uno era attaccabrighe, tanto l’altro era cauto e garbato.

      Husseyn amava la lotta, lo scontro, la caccia e, benché avesse solo undici anni, conosceva l’uso di ogni tipo di arma.

      Anche Ben Ahssan conosceva assai bene le armi e il loro uso, ma non le amava, al contrario del fratello che ne aveva fatto un culto.  Egli amava lo studio, la storia, la filosofia, la matematica… Mentre  Hussey  trascorreva tutta la giornata in scorribande e lunghe cavalcate in groppa ad  Asa, il figlio del celeberrimo Daysy, il cavallo del rais dei Kinda, suo padre, Ben Ahssan preferiva dedicarsi allo studio ed aveva trovato in sir Richard, da quando era tornato dall’Inghilterra  e nel professor Marco, durante i suoi lunghi soggiorni a Sahab o a Doha, due eccellenti maestri oltre, naturalmente, ad Akim che, nel frattempo era diventato un giovane forte, ma piuttosto irrequieto e sempre più spesso parlava di voler raggiungere  terre lontane, cercare città  sepolte   come quella che chiamava:  “La Città Rosa”.

      Ciò che maggiormente appassionava il ragazzo erano l’archeologia e la storia ed aveva  promesso a Marco che appena ottenuto dal padre il consenso e il permesso, l’avrebbe seguito nei suoi viaggi.

      Rashid, però, non era pronto a quel consenso. Ben conscio di avere un figlio superdotato per intelligenza ed acume, qualità che lo rendevano particolarmente orgoglioso, lo amareggiava, la convinzione che egli fosse  timoroso ed imbelle e questo, il grande rais non lo sopportava davvero. Avrebbe dato il suo consenso solo quando fosse stato convinto di aver fatto di lui un vero uomo.

      Non era stato sempre così, benché non avesse mai mostrato l’irruenza del fratello, attacca briga e litigioso, sempre alla ricerca della rissa. Ben Ahssan non faceva mai ricorso alla violenza.

      Rashid adorava e disprezzava quel suo ragazzo capace di tener testa con la parola tanto ad un prepotente quanto ad un  uomo di scienza, ma che con certi atteggiamenti irresoluti e rinunciatari, come quello di rifiutarsi di uccidere un nemico, appariva pavido ed insicuro.

      I  suoi amici facevano tutti progetti su di lui, egli era il solo che si rifiutava di farne. L’amico Harith suggeriva di inviarlo alla Reale Scuola di Ingegneria Idraulica, a Torino, dove anch’egli aveva studiato; Sir Richard lo avrebbe voluto allievo all’Università di Manchster e Marco non faceva che chiedergli di affidarlo a lui  almeno per  una stagione.

      Neppure Ben, in verità, si esprimeva  apertamente e anche questo era motivo di scontento per suo padre, come quando, soprattutto negli ultimi tempi, lo sorprendeva di notte aggirarsi nelle vicine rovine di un antico insediamento neolitico, solo e disarmato.

      A nulla servivano i rimproveri per questo suo comportamento imprudente e pericoloso; la sua risposta era sempre la stessa:

      “ Non ho nulla con me che possa destare l’intenzione di derubarmi. ”

      E la stessa era anche la sua:

      “Sei un ragazzo immaturo! Affrettati a crescere.”-----------------------------
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      Testo

      DUNE ROSSE - Improvvisamente .... a Dubai

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      Brano tratto dal libro

      Testoma una voce proveniente dal terrazzo attiguo, quello di Rashid, la spinse fuori. Il cancelletto era aperto e la ragazza vide la figura di Rashid seminascosta dal fusto di una palma. “Rashid.” chiamò. Il giovane aggirò la pianta e si fece avanti. Era a torso nudo, bello, atletico, lo sguardo ombroso. “Rashid..” ripeté lei avanzando di qualche passo – Che cosa significa tutto questo’” domandò arrestandosi. Rashid la fissò per lunghi attimi; lo sguardo scuro impenetrabile, poi, con voce indifferente, come mai gli aveva sentito: “Il gioco è finito, piccola.” MariaSole allibì; il sembiante prese un’aria sgomenta. Smarrita. C’era scherno ed ironia nella voce di lui e lei non ne capiva la ragione. Lo fissò muta di sgomento e stupore. Anche lui la fissava in silenzio, poi tese un oggetto che 150 la ragazza riconobbe subito: il diario della zia Soledad, che con gesto di rabbia mal represso, egli le gettò ai piedi. Sconvolta dalla furia cupa che negli occhi scuri di lui vedeva salire incontrollata, MariaSole scrollò ripetutamente il capo e prima di chinarsi a recuperarlo: “Ah! E’ per questo! – disse, imprimendo alla propria voce il tono più tranquillo possibile; alle sue spalle la faccia di Raja era un ghignetto soddisfatto - Avevo visto giusto. Il diario!… Ecco dov’era finito… nelle mani di questa manutengola…” Si girò verso la ragazza, sempre immobile alle sue spalle; Rashid, intanto l’aveva raggiunta e la sovrastava con l’imponente statura. Il profumo di lui, un misto di sandalo e spezie, la inondò, ma ecco, al di là di quel profumo, familiare ed intimo, MariaSole percepì qualcosa di diverso e di insidioso, ma di già conosciuto: un’altra fragranza. Più penetrante e sottile, che allertò i suoi sensi di un livello istintivo di prudenza. Aveva riconosciuto il profumo di Kassida. “Amore…” la udì dire, rivolta verso di lui. Era comparsa sull’uscio della camera di Rashid, malamente coperta con un accappatoio. MariaSole ammutolì; il dolore le serrò la gola. “Non dici nulla? – la voce di Rashid la raggiunse e la ferì; lo sguardo la trafisse – Voi italiani siete bravi con le sceneggiate!” sibilò a denti stretti, la. voce irriconoscibile e l’espressione del volto accigliata e temporalesca. 151 Era rientrato, nella tarda mattinata ed era corso subito da lei, ma nel suo appartamento aveva trovato sua sorella Aisha e Kassida, che, senza neanche lasciargli il tempo di aprir bocca, gli aveva teso qualcosa. Qualcosa come un taccuino: un diario, su cui aveva letto un nome: MariaSole de Arcangelis. “Che cos’è?” aveva detto. “Leggi:” lo aveva invitato Kassida e lui aveva aperto il diario e fermato lo sguardo su una pagina a caso: “Stefano adorato, unico amore della mia vita… - aveva sollevato lo sguardo corrucciato – Che significa?” “Che Kassida ha a cuore il tuo onore e la tua felicità, Rashid, e che tu sai ciò che devi fare!... – aveva interloquito sua sorella - Quella ragazza, Rashid, non è degna di te e non è una di noi e… e tu sai cosa devi fare.” aveva ripetuto e il mondo per un attimo gli era crollato addosso. Poi la reazione. L’empito di una collera incontrollabile gli era salito dentro, fino a farlo sentire ubriaco senza aver bevuto, prima di precipitare nella rabbia più furiosa e nella gelosia più cupa. Aveva aspettato che rientrasse, per ripagarla della stessa moneta. Rashid era furente. La guardava e sentiva dentro di sé la rabbia montare di intensità, ma insieme, anche il desiderio di lei, sollecitato dal profumo della sua pelle. E continuava a rodersi dentro. Furente, perché sapeva di non voler rinunciare a lei. E provava un astio profondo: odio e amore. Perché lei era una di quelle creature capaci di far salire il desiderio di un uomo ad altezze 152 vertiginose. Una di quelle creature, pensava, con cui la Natura era stata davvero generosa ma ingiusta: aveva accompagnato il dono di una incomparabile bellezza, con un animo bugiardo e menzognero. Era furente anche per quel suo mutismo ostinato ed inatteso. Un mutismo che non si aspettava. Che lo sorprendeva e contrariava. Avrebbe voluto che si ribellasse, che negasse oppure che implorasse ed invece lei lo fissava in silenzio senza accusare né discolparsi. Era davvero arrabbiato e non solo con lei, ma anche con se stesso. Forse più ancora con se stesso, perché non riusciva a controllare quel suo desiderio e bisogno di lei. La fissava. Fissava il bellissimo volto di porcellana preziosa, mentre la copriva di accuse, in cerca di una qualche emozione. Di una reazione. E invece no. MariaSole non fiatava ed egli si chiedeva a che cosa stesse pensando mentre lui la copriva di umiliazioni ed ingiurie. Gli parve di cogliere, in un barlume di tempo, un lieve, impercettibile tremore sulle labbra e un leggero fremito sul mento; alle sue spalle Kassida, intanto, con la sua aria trionfante e tutta la sua burrosa pinguedine, gli si stava accostando vogliosa e gli si fermò alle spalle. Rashid si girò, si chinò. MariaSole li sentì scambiarsi qualche parola in arabo. Non riuscì a comprendere ciò che si stavano dicendo e questo aumentò il suo svantaggio e il suo disagio. In altre circostanze, in altre situazioni, avrebbe reagito, avrebbe accusato e si sarebbe difesa ma in quel 153 momento si sentiva troppo amareggiata e umiliata e l’unico desiderio, la sola cosa da fare, si diceva, era di fuggire da quella casa troppo sfarzosa e troppo inadatta a lei. Rashid tornò a guardare verso di lei e lei sollevò il mento; i loro sguardi si scontrarono, ma lui le concesse solo pochi istanti per fissarlo, prima di girarle le spalle e in tono sprezzante e con maggior acredine scandire: “Non hai nulla da dire?” Lei strinse le mani a pugno chiuso, costringendosi a mantenere compostezza, ma il labbro inferiore le tremava. Invano provò a trattenerlo, il bisogno primitivo e naturale di piangere premeva forte, ma durò solo un lungo momento, poi fece un profondo respiro e la sua voce ferma raggiunse Rashid alle spalle: ”Sì! Qualcosa ho da dire… che siete una coppia perfetta: degni l’una dell’altro!” Rashid si irrigidì e contrasse la mascella; trattenne il passo e si girò, le labbra tirate e i lineamenti induriti come la pietra. “Ti concedo due ore per lasciare questa casa e portar via i tuoi stracci. – scandì – Ah! – fece, tornando a voltarle le spalle, mentre una vampa di sangue gli imporporava la faccia – Porta con te gli abiti e i gioielli che ti ho regalato… Non si dica che Rashid .. non é generoso con le donne!” MariaSole si morse le labbra. Il sarcasmo di quelle parole, il disprezzo, la penetrò fin nel midollo delle ossa. Senza una parola, guardò la sciarpa caduta a terra, quella 154 che lui le aveva regalato e che giaceva arrotolata; la degnò appena di uno sguardo e la lasciò là, dove si trovava poi si girò per lasciare la stanza ed allontanarsi. Dilaniata dall’umiliazione, dalla vergogna e dall’amarezza, non appena si trovò nel chiuso della sua camera, considerò che l’unica cosa da fare era fuggire da quella casa e da quell’uomo. Non una lacrima mentre raccoglieva le sue cose per gettarle alla rinfusa nella valigia e nella sacca da viaggio, mentre l’immagine insultante e cruda, dell’uomo che amava, tra le braccia di un’altra donna, le agghiacciava il sangue e arrestava il battito del cuore. Gli abiti firmati e i gioielli costosi rimasero ammucchiati sul letto, in bella vista; non vi dette nemmeno un’occhiata, quando lasciò la stanza,